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CYCLO
(XICH LO)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 11 dicembre 1995
 
di Tran Anh Hung con Le Van Loc, Tony Leung (Francia - Vietnam, 1995)
 
Leone d'Oro all'ultima Mostra di Venezia, CYCLO dimostra varie cose, a cominciare dallo stato confusionale nel quale si ritrovano quegli assieme conviviali nazio-intellettual-mondano che costituiscono le giurie festivaliere.

Il primo film di Tran Anh Hung, IL PROFUMO DELLA PAPAYA VERDE, non era stato girato in Vietnam da un vietnamita: ma in Francia, a Bry-sur-Marne, da qualcuno che viveva a Parigi già dal 1975. Era quindi un film inventato su un Paese mentale, una situazione mentale (un'umile servetta di campagna riesce a farsi sposare da un ricco pianista di Saigon negli anni Sessanta), dei presupposti mentali: osservazione minuziosa della realtà (dettagli microscopici, profumi, sapori, suoni d'insetti) che dovrebbe condurre ad una verità realistica. Ed invece sfociava nel compiacimento linguistico.

Questa volta in Vietnam Tran Anh Hung ci è andato per davvero: ma - a dimostrazione che è proprio nella qualità di uno sguardo che risiede il segreto della riuscita cinematografica - le cose non sono cambiate. Anzi. CYCLO incomincia infatti come un film neorealista: nella bordellica Ho Chi Minh-Ville (ex Saigon) seguiamo le vicissitudini di un volonteroso conduttore di rickshaw, al quale subito rubano il triciclo, cosi che non gli rimane che subire il ricatto di una banda di trafficanti-mafiosi, assistere alla prostituzione della sorella (sorta di top-model, relegata nelle prime sequenze a cucinare frittelle in un antro uso cucina assieme al nonnetto riparatore di copertoni di biciclette), iniziarsi ad una scuola altamente emoglobinica dove dai maiali si passa in breve a sgozzare i rivali.

Ma allora, CYCLO non era l'indagine saggia (incollata ad un ambiente brulicante di suggerimenti) di un vietnamita che ritorna nel bailamme sociale, economico, morale dell'Oriente dei nostri giorni? No: forse un thriller metafisico, l'iniziazione al Male sulle ali del profitto, la distruzione della cellula famigliare, la perdita dell'innocenza, l'impossibilità del desiderio al cospetto di un sistema di sopraffazione che ne sta sostituendo un altro che ritenevamo più corrotto? E ancora la tentazione referenziale con un Marlon Brando giallo smunto dall'incalcolabile numero di sigarette consumate, quella di una serie di suggerimenti edipici, omosessuali, diciamo psicanalitici, il tutto in un crescendo di squartamenti iperrealistici che si vorrebbero presi in prestito dal cinema cosiddetto postmoderno americano?

Ma se non è Rossellini, Tran Anh Hung non è nemmeno Tarantino: è, soprattutto, qualcuno innamorato di sé stesso. E del proprio linguaggio: fatto di assurde contrapposizioni espressive (uno stupratore sgozzato su una terrazza con vista seguito ad una classe di bambine che cantano vestite di bianco; un'overdose traballante e stroboscopica da una gita in bicicletta filtrata col teleobiettivo tra il verde dei parchi), d'ipocrisie psuedopolitiche (panoramica sui tetti degli Hilton, con le piscine ed i tennis per gli occidentali), di puri compiacimenti (una latta di vernice blu in testa al protagonista, perché cosi risalta bene il pesce d'oro che gli si mette in bocca, o il sangue rosso che gli sgorga appena) che mutano il talento in pasticcio.


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